jueves, 29 de septiembre de 2011

Interviste: Mavis Gallant - «La mia Francia sta morendo»

«La mia Francia sta morendo»

Mavis Gallant: Richler? Arrogante ma geniale.
De Beauvoir? Mi odiava



Mavis Gallant
PICCOLI NAUFRAGI
Bur
pp. 192, € 9
«Spezzami il cuore se devi, ma non sprecare il mio tempo». C'è tutto un mondo - il mondo delle donne indipendenti che si concedono alle passioni - in questa frase con cui la scrittrice irlandese Elisabeth Bowen si è rivolta a un amante, in una lettera, tanti anni fa. E quando, durante un'intervista che si svolge in un ospedale parigino, ricordiamo queste parole a Mavis Gallant, una delle più grandi autrici al mondo di narrativa in lingua inglese, una gigantessa dell'arte della short story ridotta a un metro e cinquanta di ossa curve che si lascia intervistare seduta, con le gambe fasciate che penzolano dal letto, l'ottantanovenne scrittrice canadese scoppia a ridere, e si riconosce nelle parole dell'altra. «Sono venuta a vivere a Parigi da Montreal all'età di ventotto anni, perché volevo una vita indipendente», dice con una voce sottile, i capelli tinti che sta lasciando ricrescere bianchi e gli occhi verdissimi che mandano lampi di intelligenza e malizia. «Era un posto dove non avevo né amici né la prospettiva di un lavoro. E se non fossi riuscita a vivere con i proventi dei racconti che scrivevo, avrei smesso di fare la scrittrice. Ho fatto la mia vita. Agli uomini non chiedevo se mi amavano. Preferivo dire: sai essere discreto?».

È una grande occasione questo colloquio con la Mavis Gallant, di cui la Bur ha da poco pubblicato una splendida raccolta di racconti «francesi» intitolata Piccoli naufragi, tradotti magnificamente da Chiara Gabutti. Per vari motivi: a cominciare dal fatto che da otto mesi la sua casa è una stanza a due letti dell'ospedale geriatrico Broca, a causa di una crisi insulinica che l'ha messa in ginocchio l'ultimo dell'anno. «Stiamo facendo un braccio di ferro, io e i medici. Loro dicono che mi rimanderanno a casa solo se prenderò qualcuno che badi a me, e io dico che non ci penso proprio, che sono capace di vivere da sola. L'assistenzialismo francese è una dittatura», attacca.
Siamo qui per parlare dei racconti parigini di questa scrittrice quebequoise che ha scelto di scrivere in inglese. Capolavori come Irina; L'idea di Speck; Sciarpe collane e sandali, in cui un palazzo borghese che si svuota d'agosto diventa un limbo di angoscia esistenziale, mentre in un sudicio hotel particulier «si perdonava qualunque negligenza ai suoi spocchiosi, litigiosi e avari inquilini solo per il fatto di essere il conte di questo e il principe di quell'altro». Se vi piace la narrativa sdolcinata è meglio che lasciate perdere Mavis Gallant.
«La Parigi in cui sono arrivata da Montreal nel 1950 era così sporca e cupa, che dell'Opera non si vedevano nemmeno le statue della facciata. Sono rimasta stupefatta anni dopo, quando l'hanno ripulita e sono saltate fuori. Però non dava l'impressione di essere una città povera, come Londra. Piuttosto, era sciatta».
Mavis Gallant detesta parlare dei suoi libri. Se vi interessa quello che scrivo, dice senza dirlo, leggete i miei racconti. E quindi giriamo intorno a quei racconti, parlando delle strade, dei palazzi, dei caratteri, della società intellettuale francese, descritti da un'outsider che è sempre rimasta con un piede di qua a uno di là dall'Atlantico. Parliamo di Sartre, per esempio, che Mavis Gallant ha conosciuto a Montreal quando era una ventenne reporter abbastanza ostinata da imporre un'intervista col filosofo a un caposervizio che non l'aveva mai sentito nominare. E di Simone de Beauvoir, di cui ha scritto sul «New Yorker», in una delle sue memorabili recensioni, che le memorie A conti fatti avevano «lo stile ruminativo di una scolaretta francese che a un concerto mastica gomma al ritmo di Bach». «Ci è andata pesante», la prendiamo in giro. Risponde con un'alzata di spalle: «Era insopportabile. Gisèle Freund mi portò a casa sua perché all'epoca stava con Nelson Algren e pensava che saremmo andate d'accordo, e invece mi odiò a prima vista. Mi aveva presa per americana e continuava a lanciare accuse agli americani. Io non la contraddissi mai perché mi sembrava un argomento cretino. Inoltre era ubriaca».
Uno scorcio del Beaubourg, a Parigi, fotografato da Gianni Berengo Gardin nel 1961
Uno scorcio del Beaubourg, a Parigi, fotografato da Gianni Berengo Gardin nel 1961
E la Yourcenar? «Lei sì, l'ho ammirata veramente. Era così lontana da quel dibattito culturale che negli anni 70 si era fatto sempre più vago e basato sui soliti cliché. La sua mente, i suoi modi, persino i suoi pregiudizi e quel senso di casta, appartengono a una Francia che non c'è più».
«Tra i libri che mi stanno veramente a cuore, i libri legati a quest'esperienza francese, c'è Una casa a Parigi di Elisabeth Bowen, un romanzo che all'epoca era apparso scioccante, e che noi tutti abbiamo amato moltissimo». E ricorda che il suo giovane connazionale Mordecai Richler, l'autore della Versione di Barney , vedendola in un caffè con il romanzo della Bowen in mano le disse in tono arrogante «Se continua a leggere robaccia come quella non arriverà mai da nessuna parte». Salvo poi, invecchiando, struggersi di ammirazione per lei. «Era il suo vizio, attaccare prima che gli altri avessero la possibilità di farsi un'idea di chi fosse veramente. Mai visto nessuno più presuntuoso e arrogante di Richler da giovane. L'ho detestato. Ma più tardi ho capito che era un vero intellettuale».
Parliamo ancora degli intellettuali francesi, del passato e del presente. Del razzismo, prima quello di Céline, «la prova vivente del fatto che il seme del genio è proprio cieco» (aggiunge che «è stato il primo scrittore moderno francese ad aver nascosto i suoi soldi all'estero, in Danimarca, decine di anni prima che i suoi successori portassero i contanti nei sacchetti di carta sui treni per la Svizzera»); e poi del razzismo quotidiano che a suo dire le tocca sopportare in questo ospedale, «dove le vittime sono i bianchi. Se chiedi un bicchier d'acqua l'infermiera nera te lo sbatte sul comodino nel peggiore dei modi».
Come vede la Francia di oggi? «Sta morendo», risponde con voce infantile. «Intellettualmente, dico».
«A me è bastato guadagnare abbastanza per comprarmi la libertà di vivere come volevo e dove volevo. E considero un successo esserci riuscita. Ora voglio solo tornare a casa mia, a Montparnasse. Non le sembra che sia un po' ingrassata da quando è venuta a trovarmi l'ultima volta? Sto meglio, no? Se riprendo ancora un pò di peso, credo che dovrebbero lasciarmi andare a casa. Mi faccia gli auguri».
Livia Manera21 settembre 2011


Personaggi

• Mavis Gallant (foto di Paul Cooper) è autrice della raccolta di racconti «Piccoli naufragi», Bur. Nata nel 1922 a Montréal (Canada), ha iniziato la sua carriera professionale come giornalista. Dagli anni Cinquanta vive a Parigi. Scrive in inglese soprattutto racconti, pubblicati sul New York Magazine e tradotti in molte lingue
• In Italia sono state pubblicate (sempre dalla Bur) le raccolte «Al di là del ponte» (2005) e «Varietà d’esilio» (2007)

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